Quanta fatica ad essere europei

Alcune volte i fenomeni scelgono (o meglio scegliamo noi) immagini iconiche ma non centrali per essere ricordati. Da italiano, del mondiale di calcio del 2006 ricordo soprattutto la corsa di Grosso dopo il gol contro la Germania, piuttosto che il suo ultimo rigore con cui effettivamente vincemmo. Allo stesso modo, l'incertezza e il vacillamento dell'Europa nell’immaginario comune sono racchiusi con più efficacia nello sguardo impacciato e attonito di Michel, mentre ad Ursula Von Der Leyen viene fatta accomodare dall’entourage di Erdogan su un misero divanetto lontano dalle sedie pompose dei due uomini di potere, rispetto alle battute estemporanee e incoerenti che hanno costellato il dibattito sui vaccini, ad esempio, che teoricamente avrebbero dovuto dire molto di più a proposito della crisi che l'Europa sta attraversando.

 

Perché di crisi si deve parlare. Economica, ma soprattutto identitaria, culturale e politica. La classe dirigente europea non riesce non solo ad unirsi, ma anche a definirsi singolarmente. Basti pensare all'immigrazione: alcuni la ignorano completamente, escludendola nettamente dall’agenda politica ed evitando di parlarne se non con toni intrisi del perbenismo più spicciolo, come se questa non fosse uno dei problemi cardine del secolo. Da altri, invece, la questione viene strumentalizzata nei modi più grossolani. Paradossalmente, il tema si rivela vantaggioso anche per quelli da cui viene taciuto, in questa dicotomia forzosa che ci spinge a scegliere una delle due parti estreme. Nessuno, nessuno, nessuno che offra una visione definita, lucida, anche ideologica all’occorrenza, ma coerente. Tutte le forze politiche oscillano in balia della corrente, privi di qualsiasi visione strategica, ma pronti a rincorrere il sentore, la moda, le repentine e poco distinguibili polarizzazioni delle masse.

 

Si ripete che il politico dovrebbe essere un ammiraglio a comando della sua nave: il mare è da assecondare, la ciurma anche, ma con poche impercettibili correzioni della rotta dovrebbe portare la barca a destinazione. Quella che ha scelto lui. La politica di oggi non ha una destinazione, corregge poco la rotta, innova sarcasticamente il dibattito con slogan del tipo "non esistono più destra e sinistra", osserva distaccata i movimenti sociali, schiva quanto più possibile i dibatti ambientali ed etici.  Di fatto, negli ultimi anni vi è uno scollamento sempre più marcato fra grandi partiti politici e movimenti sociali: gli ultimi tendono ad essere sempre più presenti e a polarizzare nettamente i singoli individui, su molteplici piani che diventano sempre più numerosi. Questa complessa divisione è difficilmente riflettibile dal panorama politico: un grande partito politico preferisce la tecnica dell’astensione o della finta partecipazione superficiale, evitando di prendere una vera posizione rispetto ad ogni tema potenzialmente divisivo. Dall’altra parte, la politica si consegna alla nuova comunicazione mediata dai social, di cui non comprende né tantomeno regola il funzionamento, ma che si sente in dovere di utilizzare. 

 

Un continente in cui la cultura straborda ne è paradossalmente vittima, non essendo mai riuscito ad armonizzarsi in un’identità e una visione comune. Succube di un mondo che non plasma ormai da tanto tempo, cambia velocemente, diventa ipercomplesso e sfugge totalmente alla sua intelligenza ancora statica e novecentesca che lo costringe a capriole inutili, mentre gli altri sfrecciano a 1600 km orari, come il treno da Osaka a Tokio. Quindi noi europei ci adeguiamo ai diversi miti che da decenni ci vengono proposti principalmente da oltreoceano, ci voltiamo di fronte alle disuguaglianze crescenti su cui per un secolo abbiamo dibattuto, accantoniamo problemi imbarazzanti mentre ci ripetiamo come una filastrocca quali sono stati i nostri valori, la nostra cultura, le nostre conquiste, per poi auspicare l'acquisto della nostra squadra del cuore da parte di un fondo qatariota.  Non riusciamo ad affrancarci dagli americani, di cui condividiamo i modelli, ad emanciparci dai capitali arabi e cinesi, a costruire un fronte comune in Africa. 

 

A volte penso che questo avvicendamento, come ogni altro, sia del tutto naturale: sarà solo e semplicemente il fatto che siamo un continente vecchio, gattopardesco, fiacco. Allora largo alle giovani startup in Turchia, allo spirito imprenditoriale e imperialista cinese, alla folle rincorsa del successo americana e alla dinamicità e giovinezza africana. Anche se nella nostra linea di sviluppo sociale sono indiscutibilmente nelle retrovie, è giusto che venga il loro turno di dettare le regole.

 

Altre volte auspico una rivoluzione che si propaghi dall'Europa e riparta dai valori europei. Una rivoluzione che riporti al centro l'uomo, dopo che quella capitalistico-digitale della Silicon Valley ha portato innovazione e benessere, ma aumentando disuguaglianze, anonimato e precariato. Si parlava tempo fa di Nuovo Umanesimo. Non so se è questo che si intendeva, ma il nome non suona affatto male.

 

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